Anna Bossini esperta in storia dell’antropologia alimentare, ricercatrice nell’ambito della storia della gastronomia è una delle firme storiche della rivista Vini & Cucina Bresciana.
Ecco qui di seguito un abstract del suo articolo, che potrete leggere inegralmente nella versione cartacea sull’ultimo numero di V&C Bresciana (n. 107/2022-23) in cui ha ricostruito la cucina del “Quinto Quarto”, il tratteggio storico, con approfondimenti e interventi del gastronomo bresciano Marino Marini ( leggi qui l’intervista di Marini rilasciata al nostro blog sullo spiedo bresciano piatto tipico a cui abbiamo dedicato anche un videoracconto).
“FEGATO QUA FEGATO LÀ, FEGATO TRIPPA E BACCALÀ” (citazione da Antonio de Curtis, in arte Totò)
Basta retrocedere di un passo lungo il cammino storico della gastronomia in generale ed entrare nello spazio dedicato alle cosiddette frattaglie per vederne il duplice aspetto. Ci sono state epoche in cui rappresentavano un cibo di scarto destinato ai poveri, di contro altre in cui sono state molto apprezzate.
Poco invitanti alla vista, possono suscitare un senso di repulsione, ma quando in cucina giocano il ruolo di protagoniste in una delle loro numerose preparazioni, anche l’iniziale diffidenza può convertirsi in grande apprezzamento, addirittura in passione.
Conosco persone che rinuncerebbero a qualsiasi ricetta a base di filetto di manzo e altri tagli di carne pregiati in cambio di un piatto di rognoncini di vitello trifolati o di una frittura di coratella di capretto. Alcune ricette hanno riscosso nel tempo un tale gradimento da diventare l’emblema gastronomico della cucina di un territorio, si pensi alla “coda alla vaccinara”, purosangue romano o alla milanese “cassoela”.
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TRATTEGGIO STORICO
Gli antichi Romani avevano un’alimentazione prettamente vegetariana, salvo restando per i ceti alti, che durante i banchetti (e non solo) si strafogavano di ogni tipo di carni. I contadini invece in generale macellavano gli animali solo quando non erano più in grado di svolgere alcun servizio.
Le interiora quindi erano un piatto proibito e ricercato. Si racconta che per un piatto di trippa un ricco possidente venne spogliato di tutti i suoi beni poiché aveva sovvertito le rigide norme sulla macellazione.
Solo intorno alla fine del II sec a.C. inizia il consumo progressivo di carne, in concomitanza con lo sviluppo della vita urbana e di un accrescimento di lussi e stravaganze alimentari: fegato d’oca ingrassata a fichi (antesignano del “foie gras” francese), testicoli e creste di gallo e addirittura, la lingua di cigni e fenicotteri, considerata una vera ghiottoneria da nababbi!
Nell’Alto Medioevo la caccia, l’allevamento e la pastorizia offrivano varietà e abbondanza di carni a tutti i ceti sociali, nessuno escluso.
Per l’aristocrazia cavalleresca mangiare carne in grande quantità era simbolo di forza e di potere, mentre i signori feudali preferivano la cacciagione e la selvaggina, compreso l’orso.
Dal Basso Medioevo e per tutta l’Età moderna la diffusione della cerealicoltura, il restringimento e la privatizzazione delle selve fecero sì che il consumo della carne diventasse un privilegio per pochi da assimilarsi al privilegio sociale, rendendo il potersi cibare della carne il principale distintivo del loro regime alimentare.
La qualità del cibo veniva dunque a indicare la qualità della persona, stabilendo il confine invalicabile della divisione tra i ceti alti e il popolo.
È intorno alla fine del Settecento che le interiora iniziano la loro parabola discendente diventando alimento di scarto, riservato prevalentemente ai poveri braccianti che abitavano nei pressi dei mattatoi. E sempre in queste epoche un’ulteriore differenziazione del consumo di carne tra città e campagna venne a separare sempre di più il ceto sociale degli abbienti da quello del popolo.
La cucina del “quinto quarto”
Una vera e propria cucina di recupero, geniale come solo quella legata alle necessità e ristrettezze quotidiane sa esserlo, che si è tramandata fedelmente fino a oggi attraverso ricette che sono un vero culto. Anche se va detto che molte di queste sono state nel tempo opportunamente trasformate in proposte più delicate, in modo da renderle accessibili a tutti i palati.
C’è invece chi di ultima generazione rivisita gli antichi piatti proponendo nuove versioni, alleggerite con ingredienti meno tradizionali ma che si sposano bene e anzi spesso valorizzano le ricette. Non è dunque raro assaporare piatti più “moderni” come la trippa con zucchine e piselli o in bianco quasi cruda con limone e menta, oppure la milza all’erba cipollina.
Così, come in origine questi piatti erano figli del loro tempo, oggi non è tutto sommato dissacrante provare a superare la stretta ortodossia, mischiando profumi e sapori attuali, contaminati da culture diverse
Nel territorio bresciano molte sono le ricette dedicate alle frattaglie.
Quello che segue è un elenco che non vuol essere esaustivo, ma bastevole alla bisogna.
Tra gli antipasti troviamo l’insalata di nervetti.
I primi annoverano: il Risotto alla pitocca, la Minestrina sporca, la Trippa in brodo di verdure, la Zuppa di milza di vitello o vitellone.
La sezione dei secondi piatti presenta una maggiore varietà. Vi sono il Piedino o/e cotiche con fagioli, i Fegatelli di maiale nella rete, i Fegatelli conservati, il Fegato alla bresciana, il Fegato di vitello arrosto, le Polpettine di fegato, lo Stufato di fegato, la Frittura di capretto, la Frittura di fegato con ostie, il Gran piatto dei bolliti, la Rognonata di vitello, le Polpettine di trippa, la Soppressata di maiale alla clarense con testina, piedino, orecchio.
Per ultimi i piatti che definirei “le singolarità” di questa cucina, comuni anche a molte ricette sparse per l’Italia, e non solo. Parliamo delle Greppole, o ciccioli di maiale, delle ossa di maiale “os de sì” prima salati, speziati e poi bolliti (magari insieme a un cotechino), che gli estimatori spolpano rigorosamente coi denti.
Non manca il dolce, la cruenta Torta di sangue di maiale.
Per ultimo vorrei inserire una peculiarità, il Sisam, che veniva ottenuto dalla macerazione di scarti e interiora del pesce in olio del Garda o del Sebino insieme a erbe aromatiche locali: sicuramente un derivato del “garum”, di antica matrice latina.
Conversando con Marino Marini
Sono con Marino Marini in una tipica trattoria di Brescia. Il pranzo è quasi un pretesto per creare un’ispirata atmosfera, a che il discorso prettamente gastronomico possa essere incoraggiato a fluire.
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È alla sua esperienza e al suo sapere che oggi attingiamo, perché inquadri e dia conto e ragione dei componenti di questo cast della gastronomia che porta il singolare nome di “quinto quarto”. Ogni suo elemento diviene protagonista in cucina nel momento in cui sale sul palcoscenico di fuochi, pentole e fornelli a interpretare una delle numerose ricette che compongono il suo repertorio, dove sortiscono l’effetto di esaltarne l’originalità, la spiccata personalità, un’identità singolare. Dunque, tra tanti piatti della gastronomia locale dedicati alle frattaglie nasce la curiosità di chiedere al mio interlocutore quale piatto avrebbe meglio rappresentato la cucina bresciana, sia per gradimento che per le connotazioni sociali e culturali.
Dipende dal luogo: se consideriamo la città, si può affermare che questo piatto sia la trippa nella versione in brodo di verdure.
Piatto comune della cucina popolare, nei mesi freddi si poteva trovare sempre fumante – soprattutto nella stagione invernale -, nelle osterie di tutta la provincia, dove costituiva un vero corroborante per il corpo. A Brescia città ne esistevano varie che la offrivano, bollente e ben informaggiata, nelle caratteristiche scodelle di ceramica bianca, intensificandone il consumo nei giorni di mercato.
Anche il fegato, aggiunge Marini, era un elemento che faceva parte del semplice menu di questi locali.
Gli osti lo cucinavano con cipolle, alla veneziana, oppure al modo degli uccellini scappati, avvolgendo la fettina intorno ad una foglia di alloro e contenendola nella “reticella di maiale”, composta da un grasso molto delicato, per poi cuocerlo nel vino, oppure, e ancor più semplicemente fritto o impanato.
Il rene di vitello, il rognone, è tra le frattaglie una delle preferite. Il suo gusto è delicato e aromatico, ma la rosolatura deve essere attenta, perché all’interno deve conservare un colore rosato, privo di sangue. Prima di cuocerlo è necessario sottoporlo a un rito purificatorio mettendolo in un recipiente e lasciandolo per alcune ore sotto un filo d’acqua corrente che lo privi del sentore di urina. Il rognone ha anche un pregio importante in cucina, quello di fornire un grasso dal gusto fine che ha un “punto di fumo” superiore anche a quello dell’olio extravergine di oliva, quindi adattissimo ai fritti e alle cotture prolungate, come quelle degli arrosti.
Se invece ci si sposta nella Bassa bresciana, troviamo la predominanza delle “regaglie” o “rigaglie” (bocconi degni di un re) degli animali da cortile, soprattutto quelle del pollame: creste e bargigli, tutte le interiora, comprese di ventriglio (“massöla”) e le budelline, perfettamente pulite, usate per gustosissimi ragout e base della “minestrina sporca”, che prepara lo stomaco allo spiedo. Per finire le zampe, ottime lessate, contese dagli estimatori.
Esiste poi un salume di cui molti bresciani sono appassionati, l’”os del stomec” dove la vescica del maiale sostituisce il consueto budello e diventa un grosso contenitore della pasta di salame che al centro ospita lo sterno del maiale stesso.
«Ci sono frattaglie – precisa Marini – per cui l’uomo moderno deve aver superato una naturale ritrosia prima di affrontarne l’assaggio, come i cosiddetti granelli, i testicoli dei bovini, che spurgati del sangue, tagliati a fettine, impanati e fritti, possono essere apprezzati per una normale frittura».
Poi bisogna assolutamente includere il “gran bollito misto”, piatto immancabile del Natale, che oltre ai tagli di prammatica, come gallina ripiena, cotechino e altri, includeva la testina di vitello, lo zampino, la coda e la lingua di manzo.
Il cotechino merita un discorso a parte perché non è composto da sole cotiche di maiale macinate, ma anche dell’impasto del salame, quindi può essere considerato una via di mezzo. ( Guarda qui il videoracconto dedicato al cotechino e al salame cotto bresciano)
«Oggi tutto va di fretta e queste tradizioni non trovano posto, ma c’è chi si ostina a inseguirle e a ritrovarle tra i tavoli dei ristoranti, che in virtù del loro carrello dei bolliti si sono creati un nome e assicurati la fedeltà di interi gruppi di nostalgici. Non bisogna abbandonare questa tradizione, ed è un discorso che va introdotto sia nelle cucine di famiglia, che possono utilizzare le frattaglie, saporite, ricche di nutrienti e poco costose, e nei ristoranti, che potrebbero presentarle in modo diverso, rinnovandole o creando nuove ricette, e – conclude Marini – salvando una lunga tradizione che tocca sia il nostro percorso storico, che la nostra evoluzione sociale».