Se provassimo a chiedere a un profano quali sono le materie prime che compongono una birra, ci sentiremmo rispondere quasi certamente: il luppolo. Credendolo, forse, ben più importante dell’acqua che rappresenta invece il 90-95% del prodotto finale.
Il luppolo
Spesso mi capita di sentire persone definirsi non amanti della birra perché “troppo luppolata”, intesa come “troppo amara”, attribuendo quindi al luppolo la sola responsabilità di conferire un gusto amaro alla birra.
In realtà questa pianta erbacea perenne ha diversi ruoli positivi, in ambito birrario: prima di tutto è un ottimo conservante naturale, contribuisce alla creazione di aromi e sapori caratterizzanti in determinati stili birrari, poi perché concorre nella stabilizzazione della schiuma ed infine aiuta a coagulare le proteine in sospensione nella birra rendendola più limpida.
Il suo utilizzo, al di fuori del campo birrario, è ben più ampio e noto, sin da tempi tutt’altro che moderni: gli antichi egizi lo usavano per curare la lebbra, Ildegarda von Bingen, badessa del convento tedesco di Rupertsberg, scrive delle sue virtù conservanti e antisettiche, evidenziando la sua azione sedativa, all’interno di un’articolata raccolta di scritti naturalistici del XI-XII secolo.
Il Gruit, progenitore del luppolo
Eppure negli ultimi anni i birrai artigianali (per lo più d’oltreoceano) hanno riscoperto la tradizione della birra diminuendo o addirittura omettendo l’uso del luppolo. Tradizione questa ben radicata all’interno dei monasteri benedettini durante il Medioevo.
I religiosi erano infatti famosi per il loro “pane liquido” brassato con un mix di erbe e spezie definito “gruit” (o Gruut in fiammingo) la cui composizione rimane ancora parzialmente oscura, così come l’origine del termine, che affonda le proprie radici nel latino.
E poiché la birra veniva prodotta dai monaci, ad uso dei monaci stessi e dei pellegrini, la formula del gruit era di proprietà dei monasteri.
Chi voleva produrla, doveva pagare una tassa ai monaci per ottenere questo mix di erbe e spezie da aggiungere durante la preparazione.
Gelosamente custodita, la ricetta segreta del “gruit” poteva variare in base alle esigenze del (monaco) birraio e/o della stagione.
Sembra però che un ingrediente fosse sempre presente: il “mirto di palude” (nome scientifico: Myrica Gale). Usato una volta essiccato, era in grado di rilasciare un forte aroma che conferiva un gusto dolciastro e note speziate alla birra.
Le birre prodotte col gruit erano piuttosto alcoliche, creavano spesso effetti narcotici, afrodisiaci e psicotropi.
Le erbe contenute all’interno del composto erano spesso ricche di alcaloidi, noti per causare una reazione chimica con recettori nel cervello simile a quella del THC trovato nella marijuana e nell’assenzio.
Questo lascia facilmente intendere perché l’unico “alimento” consentito ai monaci, durante i loro prolungati periodi di digiuno, fosse proprio il famoso “pane liquido”.
Pare in realtà che il motivo che portò il gruit alla sua popolarità, fu anche quello che ne determinò la sua caduta.
Una volta scoperte le proprietà in ambito birrario del luppolo, furono molti i Paesi in Europa, (Germania in prima linea con l’editto sulla Purezza), che cercarono di affrancarsi dal monopolio monastico e iniziarono ad imporre ferrei regolamenti sull’utilizzo di precise materie prime (acqua, malto d’orzo, lievito e luppolo) proprio per “liberarsi” dai vincoli imposti dai monaci.
Aprendo così nuovi mercati, incassando ditrettamente le tasse imposte sul luppolo stesso.
Lo sapevi che in Belgio, nel cuore delle Fiandre, a Ghent, esiste un birrificio che produce ancora birra con il “segreto mix di erbe medioevali”? Si chiama “Gruut” e la sua brewster (donna che produce birra) Annick De Splenter, collabora con l’Università cittadina nella scelta delle migliori erbe e spezie da impiegare nelle sue birre.